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Sat, 06/13/2020 - 00:09

Ho tradotto per voi un articolo interessantissimo, scritto per la rivista online Aeon (www.aeon.co) da Glory M Liu, una ricercatrice americana in teoria politica, che è anche una ballerina. Racconta di come, grazie al prezioso suggerimento di un'insegnante, è riuscita a integrare la sua attività intellettuale con l'allenamento fisico (e viceversa). Offre una meravigliosa immagine della danza in cui sicuramente vi riconoscerete, e spero che possa dare anche qualche spunto per arricchirla, come è successo a lei.

In fondo trovate il link all'articolo originale.

Buona lettura!

Giulia

 

 Come danzare mi aiuta a pensare, e pensare mi aiuta a danzare

 

(Glory M. Liu su Aeon, 3 aprile 2020)

 

Danzo da sempre e sono una teorica politica. “Lavoro” e “pensiero” sono totalmente fisici in una parte della mia vita, mentre nell’altra sono assolutamente intellettuali. Per la maggior parte della mia carriera, la danza e la ricerca accademica sono state due sfere separate, ma ugualmente importanti. Tuttavia, negli anni, mi sono resa conto del fatto che molte persone concepivano la danza come un modo di pensare e di lavorare meno degno di valore. La danza, per loro, consisteva in un’attività puramente emotiva, fatta di movimenti acritici e spontanei, o in una sforzo atletico il cui unico scopo fosse quello di superare i limiti fisici del corpo.

 

Credo che una delle ragioni per cui persiste una simile visione della danza sia il pregiudizio profondamente radicato contro le vocazioni espresse. Nello stato ideale descritto da Aristotele nella Politica, ad esempio, operai, contadini, bottegai e tutti coloro che vivono una banauson bion - una vita basata sul lavoro manuale, che non richiede sforzo intellettuale - sono esclusi dalla piena cittadinanza. I loro modi di condurre l’esistenza non prevedono tempo libero, eppure la loro attività è essenziale al sostentamento anche di coloro che si occupano della gestione politica della città. Oggi continuiamo a differenziare i lavori tra quelli che richiedono capacità “alte” e quelli che invece si basano su capacità “basse”. Continuiamo a supporre, sbagliando, che coloro che svolgono un lavoro principalmente fisico possano contribuire poco alla vita di quelli che svolgono un’attività più mentale, e viceversa.

 

Sul filo di questo pregiudizio si inseriscono i danzatori. I nostri corpi sono gli strumenti principali con cui assorbiamo, distilliamo e produciamo idee che sono intangibili ed effimere. Ma è proprio questa attività che ci permette di essere visti come artisti di alto livello. Ed è proprio questa super sviluppata capacità di combinare l’attività del corpo con quella della mente a rendere la danza non solo possibile, ma potente.

 

Noi danzatori impariamo, curiamo e insegnamo tutto ciò che è possibile attraverso l’espressione del corpo. Come molti, anche io ho cominciato da piccola e sono stata velocemente inserita in un mondo di regole, schemi e abitudini. Mano sinistra alla sbarra e girarsi sempre verso di essa per cambiare direzione. Chiudi in quinta posizione, ma passa dalla prima. Davanti-dietro. Gomiti, polsi, dita; tallone, arco del piede, punta. Nell’allenamento, il ballerino impara a dissociarsi dal proprio corpo, a rinunciare alla propria struttura in favore della forma estetica - indipendentemente che si tratti di danza classica, moderna o di altro genere. Ma trattare la danza come una forma puramente fisica a cui sottomettere la nostra persona può risultare problematico. La coreografa e scrittrice americana Theresa Ruth Howard sostiene che “(la danza) rende romantica la de-umanizzazione del corpo pensandolo come un attrezzo, un materiale simile all’argilla”. Ciò trasforma i nostri corpi in meri strumenti per esprimere idee e credi che derivano da fonti esterne - che siano l’insegnante, il coreografo o anche un nostro stesso ideale della tecnica. Nella severità di una simile pratica del corpo, quindi, dove si può trovare, in quanto danzatori, spazio per la libertà e per la gestione individuale?  

 

Una pratica di allenamento che coltivi anche l’autogestione e l’autonomia è essenziale per il nostro io fisico e morale. Ho imparato tardi ad apprezzare e a rispettare questa autonomia nella danza, ma abbastanza presto nel mio lavoro di teorica politica. Nel 2013 ho iniziato la scuola post-laurea e ho continuato a danzare e a esibirmi in pezzi contemporanei, nonostante la mia routine di allenamento continuasse a essere quella classica. Mi sono infortunata più volte e sono anche stata sottoposta a un intervento chirurgico. Ho cominciato a temere che il mio corpo non fosse più nel pieno del vigore, che non potesse più sostenere le esigenze della forma artistica, e che fosse tempo di chiudere e di intraprendere un’altra strada. Ma un episodio avvenuto durante una lezione mi ha fatto cambiare idea.

 

Muriel Maffre, ex prima ballerina del San Francisco Ballet e mia insegnante alla Stanford University, ha richiamato la nostra attenzione tra una sequenza e l’altra. “Ballerini” - ha detto - “abituatevi a rompere le abitudini. Dimostrate di avere una gestione autonoma del vostro corpo”. Sono passati solo pochi istanti prima che l’accompagnatore ci desse le battute per iniziare nuovamente la sequenza di battement-tendu, ma quelle parole hanno continuato a risuonare nella mia testa per l’intera durata della lezione. Per gran parte della vita avevo creduto che danzare consistesse nel costruire un certo numero di abitudini fisiche - routine che ormai mettevo in pratica senza rendermi conto non appena superavo la soglia tra il “mondo reale” e la sala di danza. Ma l’ammonimento della Maffre mi ha aiutato a capire l’importanza del porsi domande e addirittura del “disfare” certe abitudini fisiche e mentali, che avevo costruito in decenni di lavoro. Non voleva certo dire che la tecnica della danza - la sua organizzazione, le sequenze, il vocabolario - andasse completamente rovesciata. Significava piuttosto che perfino la struttura più tecnica e formale sarebbe potuta essere integrata con la mia personale autonomia.

 

Ho iniziato ad analizzare i miei movimenti, dal più grande salto al gesto più piccolo, interrogandomi sulla loro origine. La trasformazione di un port de bras in un arabesque - l’iconica posizione della ballerina - mi ha fatto riflettere: mi faceva perdere l’equilibrio, ma in qualche modo era bellissima. Ma da dove derivava la completezza del mio arabesque? Dallo sterno, dalla gamba tesa, o dalla punta delle dita? Poi ho scoperto che quelli che mi sembravano dei tic o dei movimenti involontari erano in realtà azioni controllate, ma avevano un’origine lontana che necessitava investigazione. Facevo molta pressione con le dita dei piedi, anche quando ero in equilibrio. “Cadevo” apposta se facevo un giro in più, anche se avevo la forza di farlo. E pensavo di tenere lo sguardo basso come se fosse una scelta stilistica, invece non facevo altro che guardarmi i piedi. Ho iniziato a vedere diversamente il mio corpo e anche gli altri danzatori. I movimenti più semplici, i gesti e i passi potevano trasmettere così tante trame, sensazioni e sentimenti. Ho deciso che i tendus non erano uno sfoggio della forma del piede, bensì della sua forza e della resistenza sul pavimento. Un renversé - il mio movimento preferito - non era soltanto una forma da creare con gambe e braccia, ma un’espressione della mia parte posteriore che si spingeva in avanti nello spazio. Invece di concentrarmi sull’apparire leggera, mi sono sforzata di arrendermi alla gravità e di sfruttare la forza del mio peso.

 

Il fatto di poter avere una scelta su tutte queste qualità, che costituiscono l’arte di un danzatore, mi ha ispirata. La danza era diventata la pratica fisica di una riflessione critica e indipendente - a proposito di idee ricevute dall’esterno, di abitudini pregresse, dei valori che avevo - non solo sulla danza ma anche su cosa significa essere un essere umano realizzato. In quel momento ho capito che le mie due educazioni - come ballerina e come studiosa - stavano convergendo e diventando due modi inseparabili per concepire il mio essere e la vita. La conoscenza che ho ottenuto come danzatrice esprimeva fisicamente le idee di autonomia e di libertà che stavo analizzando nelle mie ricerche politiche. Il mio allenamento era l’esperienza quotidiana, reale e soprattutto fisica di ciò che significa avere la facoltà di dirigere la propria vita e di vedere questa capacità come una “dimostrazione di forza, più che di fragilità” (Rob Reich, Bridging Liberalism and Multiculturalism in American Education, 2002).

 

“Si impara con la pratica”, ha detto una volta la ballerina e coreografa americana Martha Graham. Le nostre pratiche - fisiche e intellettuali - possono essere molto più di un lavoro di routine e di un accumulo di abitudini. Scegliendo di eseguire una “precisa serie di azioni”, possiamo fare notevoli conquiste e avere accesso al “senso di esistere”, alla “soddisfazione dello spirito”. Noi incorporiamo la nostra autonomia e la nostra umanità. 

 

https://aeon.co/ideas/how-dancing-helps-me-think-and-thinking-helps-me-dance

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